ISSN 3035-2827 [Online]
IV Convegno Internazionale di Architettura degli Interni e Allestimento CROSSROADS | INCROCI
Pier Federico Caliari
Quaderni di 4A. Vol. 02, 30 dicembre 2024
IV CONVEGNO INTERNAZIONALE DI ARCHITETTURA DEGLI INTERNI E ALLESTIMENTO
CROSSROADS | INCROCI
La teoria generale dello spazio vissuto e il gioco delle scatole cinesi
L’Architettura d’interni è l’Architettura stessa nella sua totalità, osservata dal suo centro. Ha per sua natura un carattere potentemente inclusivo ed è capace di generare/ospitare paesaggi oggettuali e vissuti, costituiti da una straordinaria compresenza di codici visivi e comportamentali: questi paesaggi interni sono sostanzialmente costituiti dagli oggetti che accompagnano la nostra esistenza, dalle attrezzature d’uso, dalle collezioni artistiche e dalle tessiture liminari, oltreché dagli elementi propri dell’architettura declinati alla scala del dettaglio. Obbiettivo del Convegno era ed è stato evidenziare tali compresenze di codici generate o incentrate dallo spazio interno, in un quadro di “incroci” e “sconfinamenti” tra saperi.
Considerato tale obbiettivo e il sotteso approccio transdisciplinare, è stato come sempre opportuno evidenziare la posizione dell’area disciplinare rispetto al quadro generale dei saperi che convergono nel grande mondo della progettazione architettonica. Opportuno in quanto ad ogni raduno corrisponde il canto dei propri comandamenti, un po' per scelta dell’area stessa, un po' per il recinto che essa ha voluto costruire attorno a sé a difesa della propria unità e specificità - sorta di riserva o di enclave in cui ci si riconosce sia per l’intransigenza nei confronti dei saperi altri sia per la sua reale fragilità e permeabilità di fronte all’ espansione delle altre aree –. Il primo recita così: non esiste un’architettura degli interni diversa dall’architettura del mondo esterno. Esiste l’architettura. Punto.
Questa è per sua natura abitabile, fruibile, percorribile ed è quindi percepibile da diversi punti di osservazione. Di osservazione, si badi, non semplicemente di vista. Infatti, punti di osservazione e punti di vista non sono propriamente la stessa cosa. Nel primo caso si tratta di coordinate “topografiche” oggettive. Nel secondo, si tratta di inclinazioni, sensazioni, osservazioni particolari legate all’esperienza individuale. Coesistono, convivono, collaborano, si scambiano reciprocamente vibrazioni. In ogni scelta progettuale, che sia di atmosfera o di dettaglio, concorrono entrambi alla qualità del risultato, ma restano “esperienze diverse”. I punti di osservazione costituiscono il dominio dello spazio, i topòi del controllo della forma e della sintassi degli highlight. Costituiscono gli elementi decisivi della forma, così come questa esce da Io Penso. I punti di vista sono invece costituiti dal vissuto individuale, dall’insieme delle pratiche sensibili e istintuali, dal modo cioè, in cui ci poniamo quando raggiungiamo i punti di osservazione e attiviamo la nostra ermeneutica dello spazio. In questo preciso istante si stabilisce (e si consuma) lo scambio tra forma e individuo in una agonistica che possiamo definire “contrattazione creativa” tra spazio oggettivo e interferenza soggettiva. La diversità tra architettura degli interni e architettura del mondo esterno è quindi rilevabile in questa dimensione esperienziale, dove domanda e offerta derivano da diversi livelli di performatività, di sicurezza, comfort, possesso, desiderio, e dalla peculiarità degli “incontri” che ne scandiscono la percezione. Se è valida questa definizione per esteso, ci rendiamo conto che le nostre esigenze di controllo delle cose prendono forma in eguale modo e scala, sia all’interno che all’esterno dei profili liminari di ciò che chiamiamo architettura.
Quindi? A cosa giova dire che tutto è interno? Giova dire che “tutto è interno, anche l’esterno”; perché non esiste l’uno senza l’altro, sebbene possano essere scissi per ragioni puramente analitiche. Ma allora… vale anche dire che tutto è esterno? Non proprio, e lo sappiamo.
Mentre cerchiamo di dotare il mondo esterno del comfort che caratterizza il mondo interno, estendendolo ove possibile, molto più difficile è portare all’interno le condizioni esistenziali e percettive che connotano l’esperienza dell’esterno, senza trarne una sensazione di eccesso, di forzatura, di finzione. Allora se il mondo nella sua estensione è dato dalla continuità dello spazio che ci permette di percepire da fuori quali sono i luoghi dell’internità e intimità psicologica - come se attraversassimo letteralmente un gioco di scatole cinesi - possiamo immaginare che l’interno sia costituito dalla sintesi di questo scambio necessario: in sostanza, dall’insieme di punti di confluenza e intersezione esperienziale descrivibili e comunicabili “nei limiti del possibile”, cioè fin dove è possibile che accadano.
Questo è il punto di partenza: gli interni come ambienti fisici, psicologici e percettivi dove accadono e prendono forma le intersezioni di saperi e gli sconfinamenti in mondi altri. Tutto ciò, senza escludere altri ambienti fisici e mentali in cui possano aver luogo altrettanti incroci. A noi interessa semplicemente conoscere qual è l’entità e qualità delle azioni e reazioni che “incroci” e “sconfinamenti” generano nell’architettura degli interni, o vengono generati da essa.
Le ragioni di un Convegno e alcune differenze
Il IV Convegno Internazionale di Architettura degli Interni e Allestimento (27, 28 e 29 settembre 2023), intitolato “Crossroads | Incroci” - da me sovrinteso in un momento molto complicato per la nostra esistenza improvvisamente sconvolta dalla pandemia – segue tre precedenti edizioni caratterizzate da un impianto soprattutto nazionale.
La prima edizione, tenutasi il 26 Ottobre 2005, fu curata da Adriano Cornoldi e ambientata nello scenario veneziano di Iuav. Ed è ancora Iuav ad organizzare e ospitare la seconda edizione, messa in scena stavolta in due giornate di grande interesse, il 24 e 25 Ottobre 2007. La figura di Adriano Cornoldi è stata certamente decisiva in quegli anni, nell’avviare il processo di auto ed etero riconoscimento disciplinare finalizzato ad estrarre l’area degli interni dalla condizione ancillare che l’ha connotata a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Da quelle due edizioni, che costituiscono l’atto fondativo per tutto ciò che è stato introdotto successivamente, sono passati dodici anni per arrivare all’auspicato risveglio dele coscienze, grazie all’impegno dei docenti del Diarc di Napoli e dei tanti che collaborarono a quell’impresa e ad un decimo anniversario luttuoso. Nel 2009, infatti, è mancato Adriano Cornoldi - ispiratore delle prime due edizioni e dell’idea stessa di Convegno Nazionale -, e nel 2016 si è estinto, dopo ventinove cicli (1987-2016), il Dottorato di Ricerca in Architettura degli Interni e Allestimento, assorbito nel grande anfiteatro del PhD Program in Architectural, Urban and Interior Design attivato presso il Dipartimento DAStU del Politecnico di Milano. Una perdita significativa per l’identità, ma a ragion veduta necessaria per il riconoscimento dell’area in un quadro esteso e paritetico. Dopo il convegno di Napoli, tenutosi il 17 e 18 Gennaio 2020, è arrivata la pandemia, e tutto è diventato meno scontato in un clima di pesante ineluttabilità. Nell’autunno del 2021 si è riaperta la prospettiva sulla possibile organizzazione del IV Convegno di Architettura degli Interni. Dove? Fu scelta come sede Torino e fu indicato il mio nome dal Coordinamento Nazionale dell’Area per assumerne la curatela e l’onere dell’organizzazione, che ho avuto la fortuna di condividere con un numero (francamente) inaspettato di colleghi, che hanno dato vita ai “tavoli di curatela”, e con i miei più stretti e giovani collaboratori, che sono gli stessi che costituiscono la redazione di questo periodico.
Il IV Convegno Internazionale di Architettura degli Interni e Allestimento ha affrontato il tema del rapporto tra mondi differenti dal punto di vista della ricchezza e pregnanza di contenuti, in un quadro di osmosi disciplinare. Non si è trattato, nelle intenzioni, solo di un rapporto di compresenza di estetiche differenti, ma di una relazione genealogica, di derivazione e discendenza, che pone l’architettura degli interni - intesa come teoria generale dello spazio vissuto – come punto di intersezione tra saperi, competenze, sensibilità, atmosfere e modi di comportamento.
Si è trattato di un appuntamento da considerarsi, credo, rilevante non solo per l’aggiornamento dello stato della disciplina in sé, ma anche e soprattutto per una presa di coscienza dello stato delle relazioni esistenti con un ampio quadro scientifico, disciplinare e artistico che comprende non solo le aree del progetto di architettura, ma anche quelle del design, delle tecnologie della costruzione, del restauro e conservazione, del rilevamento e restituzione dell’architettura, della storia, dell’estetica, della psicologia, della comunicazione visiva ed altri saperi non necessariamente intesi come contigui, come per esempio lo sviluppo dell’intelligenza artificiale.
Un appuntamento che - considerati come acquisiti e condivisi gli aspetti di identità propria di ogni disciplina che partecipa alla ricerca e formazione nelle scuole di architettura e design e non solo – ha intenso concentrarsi sulla natura e sul futuro degli “incroci” tra saperi, nonché sulle relazioni virtuose che hanno dato vita a sconfinamenti disciplinari, ottenendo risultati significativi e pregnanti ( + = ). A questo proposito, devo sottolineare che le radici di questo sentire, così potentemente emerso nel periodo di istruzione del Convegno, hanno registrato una certa profondità nel tempo. Infatti, se devo pensare ad un momento identificabile come una sorta di atto fondativo, potrei risalire ad una lectio tenuta ai neo-ricercatori del Politecnico di Milano nel 2008 da Giulio Ballio, all’epoca rettore dell’Ateneo. In tale consesso, il Prof Ballio ci invitava a non fissarsi su ciò che già avevamo ottenuto con le ricerche inquadrate nel perimetro disciplinare di ciascuno, ma a puntare alla penetrazione delle discipline altre per ottenere il massimo delle possibilità di espansione della propria. Un messaggio che consideriamo ancora valido – e forse ancora di più oggi – di fronte alle sfide della contemporaneità.
Ma non tutto, nel dibattito di istruzione del Convegno, ha avuto esiti condivisi e processi lineari. La ragione principale è stata quella che, in tutta franchezza, non era nelle mie intenzioni replicare i tre convegni nazionali precedenti; non perché non ne condividessi premesse ed esiti, ma semplicemente perché, nel loro insieme, le tre puntate pregresse avevano chiarito tutto rispetto ai temi identitari della disciplina, ai suoi eroi e ai suoi presidi inattaccabili, e tutto ciò con estrema chiarezza. Non ho quindi ritenuto opportuno riproporre lo schema. Era di conseguenza necessario, a mio modo di vedere, mettere a punto un dispositivo differente capace di portare nella discussione temi nuovi, anche quelli che sapevo sarebbero stati meno condivisibili e accolti con potenziale freddezza. In questa magmatica fase, buon gioco ha avuto il dibattito interno alla neonata redazione di 4A Journal, la rivista sulla quale, dopo una complessa gestazione, stiamo scrivendo. Il programma del Convegno si può dire sia nato come primo momento di verifica di quanto si stava dibattendo all’interno della redazione, che non era ancora interamente strutturata, ma che stava già lavorando su filoni di contenuti che sono tutt’ora in crescita.
Sono così venute subito alla luce le differenze rispetto alle precedenti tre edizioni: per primo, già dal titolo, l’allargamento della dimensione geografica, con il coinvolgimento di colleghi e istituzioni operanti in un vasto quadro di reti internazionali. La prima innovazione è stata quindi il passaggio dalla dimensione locale a quella internazionale, appoggiando lo sguardo soprattutto verso l’esterno piuttosto che verso l’interno nazionale della nostra disciplina.
La seconda operazione è stata quella di portare dentro al dibattito il cosiddetto professionismo illuminato. Naturalmente, qui l’aggettivo illuminato è da considerarsi necessario come garanzia che quanto si è inteso rispetto alle pratiche realizzative dell’architettura sia di altissimo profilo e molto colto, se non addirittura scientificamente fondato. Alle prime avvisaglie di sensibilità offese, mi sono premurato di utilizzare un termine più digeribile da spendere negli ambienti dell’ortodossia anti-autoriale. Riporto qui di seguito un passaggio presente nella brochure del Convegno, che cerca di chiarire le intenzioni rispetto alle architetture realizzate: (…) altro aspetto che abbiamo considerato peculiare nel lavoro di istruzione, e che connoterà sostanzialmente il Convegno assieme agli aspetti teorici e storici degli incroci di saperi, è quello delle best practices, da intendersi come casi reali e realizzati che costituiscano testimonianza non solo di eccellenza professionale ed artistica ma anche di approfondimento e innovazione scientifica e metodologica. Una “Teoria per la Pratica” quindi, in un’ottica di ricerca riferita ad un’area ancora molto da esplorare e rispetto alla quale il Convegno intende porsi come soglia iniziale e primo passo di un processo di acquisizione inteso soprattutto come allargamento del campo e degli orizzonti del sapere, più che un ulteriore consolidamento delle posizioni disciplinari.” L’aspetto della “professione” è per noi un aspetto fondante. Molti colleghi che fanno professione si vergognano a dire che fanno quello che fanno (pur operando nei confini segnati dalla legislazione italiana), come se la storia dell’architettura non fosse la storia della professione dell’arte architetturale. Come se lo star system in cui brillano Frank Lloyd Wright, Le Corbusier, Mies Van de Rohe, James Stirling, Kenzo Tange, Tadao Ando, Renzo Piano, Rafael Moneo, Peter Eisenman, David Chipperfield, Eduardo Souto de Moura e tanti altri (solo per citare i moderni e contemporanei), o in quello nel quale brillano ancora oggi Palladio, Michelangelo, Raffaello, Bernini e Borromini, piuttosto che Guarini o Schinkel, non fosse un pianeta di eccelsi professionisti, molto ben pagati per i servizi svolti per il loro committenti. Come se essere pagati per la qualità delle proprie prestazioni intellettuali e tecniche fosse un delitto di cui vergognarsi, senza via di redenzione. Durante l’istruzione del Convegno, mi è capitato di dover mettere agli atti tali convinzioni. Ho tuttavia agito in senso contrario, ed ecco che la professione, quella colta e che opera a livello di eccellenza, è tornata ad essere parte del discorso sull’architettura insegnata a scuola e dell’architettura avente valore scientifico. La raccolta delle best practices, va detto, non trova spazio in questo volume, ma sarà oggetto di altra pubblicazione, sempre curata da Accademia Adrianea, che è stata main partner del Convegno.
La terza innovazione è stata quella della durata: tre giorni anziché due. Un giorno in più. Non per desiderio di ipertrofia o di monumentalizzazione dei contenuti. Semplicemente perché è stato coinvolto un pezzo di memoria dell’architettura d’interni, che nei precedenti Convegni Nazionali non aveva trovato posto come argomento di senso compiuto, ma solo come tool della ricerca. E questo, naturalmente, si è portato dietro il suo spazio argomentativo, incentrato sulla rete degli archivi di architettura. Il lavoro di istruzione ha quindi considerato importante promuovere l’inizio di un processo di connessione in rete di topòi di archiviazione ordinativa accessibili on line. Da una parte, ciò significa costruire relazioni tra archivi esistenti e già disponibili, dall’altra incoraggiare l’ordinamento e condivisione di archivi di formazione pregressa ma non strutturati, oppure di nuova formazione come, per esempio, un archivio nazionale della disciplina, capace di contenere anche il prodotti degli incroci e sconfinamenti disciplinari. Su questo stiamo lavorando, e forse un archivio delle scuole di architettura riferito agli interni nascerà nel 2025.
Infine, la quarta novità è costituita dal metodo di istruzione dei contenuti, che crediamo sia stato innovativo rispetto al nostro contesto e alle edizioni precedenti, e che abbia dato frutti
interessanti dal punto di vista non solo degli esiti, ma anche e soprattutto da quello del coinvolgimento in chiave nazionale di un numero molto importante di attori. Per circa un anno e mezzo, una trentina di colleghi hanno lavorato attorno a tre tavoli di curatela, prima sulla discussione dei contenuti e in seconda battuta sulla selezione degli inviti e sulla programmazione.
Sulla base dei tre tavoli, il Convegno è stato quindi strutturato in tre sezioni alternate all’interno delle tre giornate, dedicate ai temi sopra individuati: Incroci/Architetture, Incroci/Teorie, Incroci/Memorizzazione. La ritmica delle varie sessioni è stata poi scandita dagli interventi dei ricercatori che hanno proposto contributi nel quadro della call for papers associata al Convegno e declinata nei tre temi principali. Il presente numero, il terzo di 4A Journal, raccoglie e testimonia l’insieme di tali contributi.