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ARTE È SCIENZA / SCIENZA È ARTE.
Testo artistico e Testo scientifico

Pier Federico Caliari

Quaderni di 4A. Vol. 01, 28 Febbraio 2024

In occasione di un convegno internazionale sulle scuole di architettura, tenutosi molti anni fa e precisamente nel 1988 a Vienna, Giorgio Grassi incalzato da James Stirling sul definire cosa fosse la teoria in architettura, e quindi nella scuola, così rispose: «La teoria è l’architettura resa trasmissibile attraverso le tecniche del discorso». Non diede una risposta prestata dai saperi iperformalizzanti, come per esempio la filosofia della scienza o la logica formale, ma una semplice risposta generata dall’ovvio, cioè dal potenziale discorsivo di un ragionamento quando questo esce dal nostro intelletto per chiedere a quello degli altri individui un consenso, passando dall’essere un giudizio individuale ad un giudizio con pretesa di universalità. Si tratta quindi di un’architettura descritta e spiegata, il cui senso può anche mutare sulla base della risposta interpretativa, dal punto di vista sia della pragmatica, sia del contesto.

Nel primo saggio introduttivo alla rivista/collana avevo espresso e ribadito un concetto a me caro e che considero immutato da quando abbiamo cominciato ad occuparci di forma  dell’architettura: essa appartiene saldamente al mondo della produzione artistica e non a quello della produzione scientifica, se non per quanto essa stessa può ritrovarsi scissa e declinata in sottosistemi scientificamente verificabili e regolabili (strutture, impianti, climatizzazioni, ecc.). Tuttavia, per esempio, negli ambienti universitari e della ricerca la progettazione architettonica deve esprimersi attraverso contenuti scientifici, altrimenti i suoi attori non possono ambire ad essere riconosciuti nelle piattaforme di valutazione e quindi destinati all’estinzione accademica.

La strada più sicura e battuta dai progettisti dell’architettura per ottenere la considerazione del mondo è soprattutto quella letteraria. I progetti disegnati o realizzati, contano meno. Quello che conta è la ricerca raccontata unita ad una didattica che sia espressione di tali racconti.

Non a caso il secondo numero di 4A Journal riflette su una inaspettata identità tra scienza e arte: qual è la forma della rappresentazione? Come si scrive? Se la scrittura è la forma con cui il pensiero comunica verso l’esterno attraverso codici autoregolantesi, in che modo un progetto di architettura appartiene al mondo delle proposizioni scientifiche? All’opposto, se un’opera d’arte si manifesta innanzitutto per la sua sintesi figurativa, e quindi non attraverso un testo autoregolato, come può appartenere alla sfera scientifica?


Testo artistico e Testo scientifico

La strada che intendo percorrere in questo ragionamento è quella di un sapere scientifico anche in architettura si manifesta e si comunica attraverso la sua scrittura che è letteraria. Quindi la tematizzazione deve essere calibrata sul confronto fra testo architettonico/artistico e testo scientifico, escludendo quindi necessariamente quella forma della rappresentazione che qualifica normalmente il fare architettura nel suo percorso esecutivo, dalla teoria alla realizzazione, e cioè il disegno come astratta anticipazione dell’idea che in un secondo momento diventa costruita. Da qui la domanda ulteriore: può il progetto di architettura essere considerato un testo scientifico? Se sì, il suo risultato è costituito da una proposizione scientifica? E cioè, quell’architettura uscita dal percorso progettuale così definito ha la cogenza di un enunciato scientifico? Se sì, a che pro? Un’architettura scientifica è meglio di una “solo” empatica? E ancora: la sua qualità è dovuta alla coerenza procedurale o all’intuizione figurativa? Infine, dove risiede quel fattore di eccellenza che consente ad un’architettura di essere “perfetta” e ad un enunciato scientifico di essere “architettonico” come argomentava Kant nella Dottrina trascendentale del metodo? 

Vi sono almeno due aspetti importanti da considerare. Il primo è che gli enunciati scientifici sono. Punto. La loro natura ontologica e assertiva è tale che non ammette livelli di approfondimento interpretativo, ma solo dimostrativo come test ripetibile per poter godere del loro valore di universalità. Possiamo dire lo stesso dell’opera d’arte o dell’opera di architettura? Certamente no. Ma possiamo dire con buona ragione euristica che, dal punto di vista ontologico, un’architettura costruita (quindi eseguita dal punto di vista della sua ragione epistemica) è. Esiste... Punto. Anche un’opera d’arte realizzata è. Esiste… Punto. E quindi il problema si sposta su un piano estetologico, e cioè dal punto di vista della reazione estetica generata dalla percezione e dalla fruibilità dell’opera (ed in particolare del suo spazio pragmatico e contestuale) da parte del ricettore, sempre se ammettiamo che architettura e arte costituiscano in sé un testo codificato e trasmissibile.

Il secondo aspetto è che gli enunciati scientifici – immaginiamo quelli propri della fisica come la gravità, o della termodinamica, come l’entropia – non sono “cose” che si vedono. Noi ne vediamo gli effetti oppure sappiamo che esistono grazie a formalizzazione dei loro processi e alle prove di laboratorio. In architettura e arte, invece, le “cose” si vedono e si toccano. In questo senso, ciò che tiene assieme su un livello di intellegibilità le “cose” della scienza con le “cose” delle arti è (unicamente) la loro formalizzazione testuale codificata e discorsiva, che deve essere coesa, coerente, intenzionale e accettabile.


Teoria del come

Pertanto, come, in che modo, l’architettura è resa trasmissibile attraverso le tecniche del  discorso? Come emerge la presenza dichiarata di una teoria fondata epistemologicamente, estetologicamente e pragmaticamente, espressa in forma di testo? L’architettura è il territorio dove è aperto il conflitto tra esigenza di universalità e spinta artistica individuale e autoriale:

- della trattatistica: che esprime una teoria del come si fa e del come si deve fare per fare bene. Si tratta di una teoria marcata da certa quota di dover essere, in un complesso rapporto tra etica ed estetica, applicabile mediante regole generali con relativa indipendenza pragmatica e contestuale;

- della manualistica: che esprime una teoria del come si è fatto e come si deve continuare a fare per fare bene (teoria delle architetture di riferimento, degli esempi pragmatici e contestuali, dell’imitazione);

- della saggistica: che esprime una teoria – alla quale è richiesta una forte struttura logico-formale – del saper fare in prospettiva di continuare a fare bene spostando il ragionamento anche fuori dell’architettura stessa in una operazione di coinvolgimento referenziale, spesso letterario o artistico.

Aggiungo, prendendomi tutte le responsabilità, che l’architettura è territorio: 

- della narrazione romantica, cioè romanzata, costituita dalla fusione di due generi letterari, la narrativa e la saggistica, e comprendente tutte e tre le teorie suddette (trattatistica, manualistica, saggistica) in compresenza e messe in forma di dialogo.

A livello autoriale l’Alberti, il Palladio e il Wright viaggiano tutti a un livello altissimo di eccellenza e costituiscono modelli di assoluta grandezza e trasmissibilità, indipendentemente dalla strategia di comunicazione teorica utilizzata (tanto testo, medio testo, zero testo).

Il De Re Aedificatoria dell’Alberti, trattato in questo volume da Pier Luigi Panza e da Raimondo Pinna, è la massima espressione dell’architettura “resa trasmissibile attraverso le tecniche del discorso” nella declinazione più “grassiana” possibile. Con riferimento alla matrice vitruviana, la descrizione logico-sintattica del procedimento compositivo per la realizzazione del teatro romano costituisce l’apice della coerenza tra forma e contenuto in unità. È un’opera quindi che conferma l’autorità dell’Antico e che cerca di attualizzarsi per darsi una collocazione progressiva, ma l’autorità degli enunciati è sempre ed in ogni caso demandata al mos maiorum greco-romano. I Quattro Libri dell’Architettura di Andrea Palladio costituiscono, dal canto loro, una rottura della continuità nella trattatistica rinascimentale poiché è potentemente introdotta la componente autoriale, non sotto l’aspetto letterario, ma come teoria delle architetture di riferimento. Palladio mette sullo stesso piano le sue realizzazioni con quelle dell’antichità romana (da lui viste e rilevate): la Basilica di Vicenza comunica allo stesso livello del Pantheon di Roma e la trattazione è cinquanta/cinquanta testo e disegno. All’estremo opposto del De Re Aedificatoria dell’Alberti si colloca Ausgeführte Bauten und Entwürfe von Frank Lloyd Wright che è il trattato di architettura del grande maestro americano (1). Noto, anzi, molto poco noto, come The Wasmuth Portfolio, è la massima espressione dell’architettura resa trasmissibile attraverso le tecniche del disegno. Il testo è collocato in introduzione, ma il vero messaggio comunicativo sono le strepitose litografie realizzate su disegno di Taylor Wooley. Qui c’è un ulteriore balzo in avanti da un punto di vista autoriale: l’introduzione della componente artistica conclamata espressa da un ego gigantesco a sua volta rappresentato dall’eccellenza grafica.

“Io sono Wright e Io sono l’Architettura”. In realtà, il godimento della Bellezza delle tavole del trattato wrightiano è totalmente indipendente dalla presenza del testo introduttivo, che è invece importante dal punto di vista editoriale e quindi commerciale. Le tavole del portfolio parlano da loro e sono autoreferenziali per coloro che hanno in dotazione le chiavi interpretative del codice grafico utilizzato da Wooley-Wright. Qui emerge con vigore il rapporto complesso tra individualità e universalità del messaggio poetico. Tanto potente è l’autorialità, tanto è diffusivo il messaggio e quindi la capacità di fare scuola, creando proselitismo ed un secondo livello generazionale di comunicazione. Cosa che, va detto, produce anche la devalorizzazione dell’idea primigenia a causa della normalizzazione del messaggio, inevitabile quando l’originale diventa maniera. 


Chanson de gestes architecturales

La narrazione romanzata è un potenziale (e autoriale) testo scientifico? È possibile immaginare che un docente possa inserire nella bibliografia di riferimento dei suoi corsi un romanzo, e quindi un’opera d’invenzione (2)? Se dovessimo ragionare sul romanzo inteso come opera avente valore scientifico, come dovremmo regolarci? Ho proposto di definire “romanzo scientifico” due mie opera letterarie, L’Enigma di Boussois. [I misteri di Villa Adriana] del 2022 e Nerone e il suo Spettro [Domus Transitoria.doc] del 2023 (3). In entrambi i romanzi sono espresse questioni

di ordine scientifico in un modo in cui i contenuti non sarebbero accettabili in contesto universitario o saggistico. Tuttavia i due romanzi sono stati anticipati da un’ampia letteratura precedente, tutta espressa in ambito saggistico (4). In questo senso, essi sono la versione “animata” di quanto espresso nella saggistica scientifica, ma messa in forma di dialogo. È infatti attraverso le serrate sticomitie dei personaggi che vengono esposti i temi e sottoposti a critica o verifica nell’interlocuzione. In tali sticomitie, i dialoganti hanno il compito di esporre, integrare deduttivamente e mettere in discussione le tesi già ampiamente ragionate su vari saggi monografici. Lo fanno con la collaborazione deduttiva del lettore. In questo senso, credo non vi sia alcuna differenza di contenuti tra un saggio scientifico e una narrazione romantica e, per questo motivo, in calce alla narrazione ho voluto appositamente aggiungere una nota in cui veniva spiegata la formula con cui è stato scritto il romanzo Enigma di Boussois:

«Questo romanzo è una sintesi tra invenzione e discorso scientifico, intendendo con questo un metodo di lavoro, un atteggiamento rispetto ai temi che studio, che è ormai consolidato nella mia professione accademica. Mi è sempre piaciuto definire questo manoscritto un romanzo scientifico, in cui la fusione dei due generi letterari ha consentito alla narrazione, da una parte, di elaborare una serie di concetti senza il vincolo della legittimazione discorsiva a tutti i costi, che invece è richiesta al saggio scientifico; e dall’altra, ha consentito allo stesso tempo di costruire un libero fraseggio intenzionalmente sempre legato ai grandi temi della discussione scientifico accademica che hanno connotato il dibattito su Villa Adriana dal Rinascimento ad oggi.»

Spostandoci sul “caso” Umberto Eco, che pare paradigmatico, possiamo immaginare che abbia un senso collocare all’interno di una bibliografia che non sia quella di un corso di Semiotica, una delle sue opere? Oppure, e scendendo più in profondità, può un romanzo come Il nome della Rosa (1980) o come Il Pendolo di Foucault (1988) essere oggetto di valutazione scientifica ministeriale e noverato tra i testi scientifici normalizzati? Il nome della rosa, per esempio, viaggia su diversi livelli di codificazione, indipendentemente dalla sua trama. È una compresenza di generi e sottogeneri. Appartiene principalmente al genere “romanzo storico”, ma declinato in chiave “noir”, con spiccata vocazione al “thriller” di azione. Per quanto può interessare il nostro discorso, l’aspetto centrale è quello del “noir”, che si dispiega attraverso un’opera di ricostruzione e di interpretazione linguistico discorsiva raffinatissima che costituisce una straordinaria performance scientifica dal punto di vista semiologico, da quello della medievistica 

e da quello della storia e della critica artistica e architettonica. Ed è proprio l’operazione  ricostruttiva che costituisce il veicolo, per esempio di una teoria del mondo medievale attraverso aspetti multidisciplinari (o intertestuali), a partire da quello storico artistico per finire con quello sociologico, passando per quello dei processi di produzione segnica e significazione, oggetto della semiotica. A mio modo di vedere, un’opera di tale portata, sebbene organizzata discorsivamente in un genere differente da quello della saggistica scientifica, può certamente costituire testo di riferimento scientifico in un corso di storia dell’architettura, in uno di estetica, ma anche in un laboratorio di progettazione, in quanto restituisce una visione del mondo strutturata e dotata di un linguaggio specifico e costruito su modelli verificabili.  

Se è vero quanto appena esposto, la performatività scientifica e quindi metodologica per  esempio di un romanzo storico, quanto è dovuta alla sua autorialità ed eccellenza artistica e quanto alla sua condivisibilità formale? È più opera d’arte o più saggio scientifico? Qui, mi pare, arte e scienza viaggiano in parallelo… qualcosa di simile cioè a quello che Umberto Eco intendeva con l’idea di cooperazione interpretativa espresso in Lector in fabula (1979). In sostanza, la scuola – e la sua comunicazione – non la fa un soggetto fonte, ma la fanno più soggetti che svolgono il ruolo sia di fonte che di ricettore.



Note

(1) Pubblicato in tedesco a seguito della Studies and executed buildings by Frank Lloyd Wright (1998), ristampa dell’edizione del portfolio di 100 litografie pubblicate nel 1919 da Verlag Ernst Wasmuth A.G., Berlino. Con il testo introduttivo e le annotazioni originali di Frank Lloyd Wright. proposta dell’editore berlinese Ernst Wasmuth.

(2) Certamente è possibile se si tratta di un corso compreso in un percorso formativo a carattere letterario, ma anche se si tratta di un programma di media o scuola superiore. Quante sono le opere “di invenzione” che vengono studiate per dare fondamento culturale alla popolazione studentesca di un Paese? Per quanto riguarda la letteratura italiana, per esempio, basterebbe pensare alla Divina Commedia o ai Promessi Sposi, che poi è il più celebre dei romanzi storici della letteratura italiana. Se ci si proietta nel mondo dell’episteme classica è abbastanza difficile poter rinunciare alle opere poetiche di Omero, di Eschilo, Sofocle e Euripide, per citare quelli del grande Olimpo di riferimento. Tutte presenze consolidate nei programmi ministeriali dell’educazione italiana e del mondo occidentale.

(3) Pierluigi Panza sulle pagine del Corriere della Sera, in occasione di una sua recensione al Nerone e il suo Spettro [Domus Transitoria.doc] (2023), fa giustamente risalire l’origine della questione ad alcune opere di Umberto Eco, considerabile come l’inventore di questo particolare genere letterario, definito come postmoderno ma ancora saldamente integrato alla contemporaneità: «Per giungere a questa tesi, però, il romanzo Nerone e il suo Spettro (Robin Edizioni), si dipana come un noir sul modello di quella letteratura postmoderna che utilizza la fiction per avanzare ipotesi che non sarebbero accettabili nel genere saggistico o in contesti accademici. Una tradizione iniziata con Umberto Eco, che ha attraversato gli ultimi decenni e che l’autore aveva già sperimentato nel precedente libro L’Enigma di Boussois (sui segreti di Villa  Adriana), Premio Città di Como 2022. Corriere della sera del 4 Aprile 2023.» 

(4) Nerone e il suo Spettro costituisce la mise en scène di temi dispiegati nelle monografie La Forma dell’Effimero (Lybra, 2000) e Museografia. Teoria estetica e metodologia didattica (2003), come la natura ibrida delle collezioni antiquariali, il tema della replica nella storia delle collezioni, l’architettura del John Soane’s Museum, le tesi di laurea sviluppate sul Palatino e a Villa Adriana, ecc.; analogamente, L’Enigma di Boussois è stato anticipato da una vita di studi e di  sperimentazioni su Villa Adriana, culminati con la monografia Tractatus Logico Sintattico. La forma trasparente di Villa Adriana (2012) e con i due saggi pubblicati su Ananke 84 (speciale su Villa Adriana) in occasione del diciannovesimo centenario della posa della prima pietra della Villa Imperiale nel 2018), in particolare, quello sul cosiddetto “tecnigrafo post alessandrino”.

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