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L'editoriale. Considerazioni elementari sul ruolo di una rivista scientifica

Pier Federico Caliari

4A è il magazine architetturale dell’Accademia Adrianea di Architettura e Archeologia Onlus, organizzazione senza scopo di lucro che opera da un quindicennio nel settore della ricerca scientifica e dell’alta formazione con riferimento ai temi del rapporto tra progetto di architettura e valorizzazione/riqualificazione del patrimonio con particolare attenzione per quello delle antichità.

È una rivista di architettura che nasce con l’ambizione di diventare una rivista scientifica e poi di classe A – nel quadro della disseminazione scientifico-accademica – e che agisce in un ampio scenario internazionale di collaborazioni, attivando una duplice ricerca su temi teorico metodologici e su temi progettuali realizzativi.

Ma 4A è anche una rivista militante - con un preciso posizionamento rispetto ad un quadro di riferimento storico culturale - e allo stesso tempo, una piattaforma di supporto ad una sintesi orizzontale ed inclusiva delle altre idee che non ne costituiscono necessariamente parte costitutiva. Tutto ciò con l’obbiettivo primario di generare incroci di saperi, stratificati ed inediti, dove per incrocio s’intende un’ibridazione disciplinare ottenuta secondo il doppio principio del desiderio di alterità e dello sconfinamento teoretico, che sono poi le risorse storiche che hanno dato vita alla ricerca sul campo sviluppata dall’Accademia Adrianea da quando è stata fondata nel 2007.


Incroci genealogici e percorsi teoretici

Fin dalla sua istituzione l’Accademia Adrianea si è inserita nell’alveo della tradizione beaux arts ed in particolare delle esperienze ed esiti della ricerca interna al mondo dei pensionnaires francesi di Villa Medici a Roma, individuando nel corpus degli envois degli architetti vincitori del Grand Prix de Rome un riferimento esplicito e pregnante. Una metodologia basata sulla storia come “plug in” da tecnigrafo e sull’esperienza in situ come processo determinante di emancipazione teoretica e maturazione progettuale. Tutto ciò nel quadro di una visione programmatica certamente non avulsa da un intenso dover essere, modulato sull’obbiettivo del raggiungimento della Bellezza e sul riconoscimento dello Stile come termine dialettico rispetto ai sistemi di attese.

A questo paradigma, storicista e contestualista, si affianca quello di derivazione politecnica –  nel quale operiamo in chiave universitaria –  basato invece sulla performatività e sulla messa a punto di metodologie con validità intersoggettiva per il raggiungimento della verità scientifica. Ed è proprio la struttura poli-tecnica nella quale agiamo, che giustifica e valorizza l’incrocio tra tradizione beaux arts con quella performativa, tra la Bellezza e la Verità. La vocazione poli-tecnica è per sua natura inclusiva anche dei mondi altri, quelli cioè che possono apparire in competizione oppure desueti rispetto al comune sentire, non senza un attrito rispetto alle posizioni iper-mono-disciplinariste.

Nella fase istitutiva della rivista, durata circa un anno, si sono messe a confronto diverse posizioni riguardanti temi sensibili del dibattito disciplinare in diverse aree: tra questi, per esempio, il tema del posizionamento rispetto ai paradigmi della modernità e ai suoi esiti costruiti, sia con riferimento al paesaggio storico costruito che a quello naturale disegnato. Le riflessioni che ne sono emerse riguardano anche il tema della modernità come paradigma di insegnamento nelle scuole, come esempio di emancipazione dalla storia e come posizione etica di rinnovamento rispetto alla tradizione cosiddetta accademico-eclettica. La posizione della rivista è critica nei confronti di questo modo di fare scuola e di comunicare la materia a chi farà l’architetto. Per questo, ben consapevoli della modernità in architettura in quanto errore della storia, consideriamo interessante stimolare le controparti in una querelle che a nostro modo di vedere ha molto di settecentesco. Il nostro legame genealogico con il Settecento e con l’Ottocento, più che con il Novecento, è incardinato nei modelli di insegnamento e nelle figure di riferimento collocate in un quadro artistico generale in pieno spirito beaux arts e di cultura antiquariale: Nolli e Piranesi, Juvarra, Soane e Winckelmann, Canova e Mengs; Viollet-Le Duc, Valadier, Stern e Salvi; Antonelli, Antolini e Canina, Basile e i Coppedè; Boussois e Girault, Lanciani, Koch, Muñoz, De Vico e Piacentini, solo per nominarne alcuni tra quelli di nostro interesse. Un quadro che continua e vuole tenere assieme figure operanti su fronti diversi: architetti, paesaggisti, restauratori, pittori, scultori, archeologi, storici e critici partecipanti ad un ideale milieu, che è molto lontano dagli slogan tipici del modo di comunicare e di fare dei cosiddetti moderni, ma con i quali intende confrontarsi e, nell’eventualità, anche incrociarsi.

I paradigmi della modernità, dal canto loro e dal loro rifiuto nei confronti della storia, hanno portato ad un altro punto della discussione, quello della ricostruzione in architettura –  sviluppato sia dal punto di vista dei compiti del restauro e della conservazione sia da quello delle aspettative dell’istanza progettuale –  a fronte delle emergenze sismiche o dovute ad altri sconvolgimenti naturali o generati dall’azione umana; un tema fortemente divisivo dalla difficile ricomposizione che non sia quella dell’ormai declamato “caso per caso”. Ma che comunque rimanda a un confronto strategico con il progetto del nuovo. È un tema sul quale la rivista vuole dibattere senza uniformare pregiudizialmente i parametri di valutazione. Si resta su fronti distinti in base alla propria appartenenza e al quantum di moderno che permea i ragionamenti degli attori protagonisti impegnati in una sorta di disputa ideologica. Temi come il falso storico, la copia conforme, la riproduzione filologica, piuttosto che l’innesto e l’autonomia formale e materica, sono stati affrontati con spregiudicatezza delineando sia posizioni come quella di chi rinuncia alla riproduzione dell’immagine dell’originario nelle sue possibili nuance, sia quella per cui la ricostruzione di un’architettura è sempre e comunque la prima opzione tra le diverse possibili, quando si affronta il tema dell’intervento volumetrico su una preesistenza. A ciò si aggiunge la convinzione mutuata dalla sperimentazione, che il progetto del nuovo mediante innesto possa costituire una ratio facilis nel rapporto con l’antico a differenza del progetto filologico che invece si sviluppa per ratio difficilis su alti livelli di complessità. La scelta storico-filologica presuppone una sfida ad alta tensione con la preesistenza, con le sue tracce, con il suo lascito testamentario che è tutto raccolto nei documenti che ne fissano la memoria e che intervengono per colmare il vuoto e la distanza che esiste tra ciò che si vede, la rovina, e ciò che non si vede, lo stato originario.

Un ruolo fondamentale, nella percezione di tale distanza è sempre giocato dal Tempo. Nella discussione preliminare il termine ha acquisito la connotazione di un qualcosa di molto simile ad una divinità imperscrutabile, così come ineffabile è la bellezza di cui la rovina stessa è portatrice, pur nel suo stato di ex architettura, di ex infrastruttura, di ex luogo. Nonostante le ferite e le espoliazioni. Il Tempo “grande scultore” è il vero protagonista del nostro agire come architetti, come artisti e letterati. È la dimensione che ci consente di aprirci ai processi che introducono alla Bellezza, da considerarsi non solo come prodotto istantaneo dell’appercezione nella genesi dell’opera, ma come lascito, come resistenza stratificata della forma nella lunga durata. E allora immaginiamo la bellezza del Partenone o del Pantheon, certamente frutto del talento dei loro progettisti, ma anche della resilienza e capacità dei monumenti di continuare a produrre senso ed emozioni lungo la distesa dei tempi.

La Bellezza, dunque, come tema imprescindibile nella formazione delle nuove generazioni e legato alla mitologia delle architetture perfette, quelle architetture cioè che hanno raggiunto un imperturbabile equilibrio nella loro consistenza materica e visiva, temporale, costruttiva e percettiva. Prodotto di quale segreto? Prodotto della volontà di Stile e di un giudizio universalmente individuale sul compito e destino dell’architettura e delle arti.


Discorso scientifico e giudizio estetico

Anche il tema del giudizio estetico riferito all’architettura, alle arti, al paesaggio, ma anche alla moda, al design performativo e alle arti decorative nel loro tentativo di dimostrazione scientifica, appare un problema che soggiace all’intero lavoro critico attorno agli incroci disciplinari ad alto contenuto creativo. Un problema che può anche preludere ad un autentico shock rispetto alle pretese di scientificità di giochi linguistici le cui criticità di fronte alla strutturazione logico formale, appaiono molto evidenti. Per certi versi la dialettica tra arte e scienza resta comunque il tema dominante e anche questo è stato oggetto di analisi, anche e proprio nella prospettiva di eventuali incroci tra saperi scientifici e saperi solo “normativi” ma aperti alle forme artistico-creative. Sarà interessante approfondire il grado e livello di scientificità delle discipline che si riferiscono alle belle arti, architettura compresa. Dal dibattito avviato in sede redazionale, i dubbi sulla scientificità estesa a queste discipline sono emersi con decisione e l’ipotesi che il nostro principale ambito di discussione e di studio sia legittimato scientificamente solo dal rigore dalle applicazioni tecnologiche non appare peregrina. Ed è evidente che quando si parla di applicazioni tecnologiche si intendono soprattutto le tecnologie progettuali che agiscono sulla condotta umana difronte alla trasformazione del mondo. Cioè tutte quelle tecniche acquisite dal pensiero che trovano nella logica formale lo strumento di ordinamento e consequenzialità delle scelte, non ultime quelle di ordine etico, estetico o dettate dallo stato psicologico. Attività eminentemente selettive, che fanno delle arti e dell’architettura discipline di sintesi tra tecnica e qualità (bellezza), senza che esse siano necessariamente sorrette dall’esigenza di scientificità. Ma il gioco linguistico all’interno del quale operiamo, e cioè quello dell’agone tra impianti discorsivi autoregolantesi con pretesa di scientificità, richiede l’applicazione del metodo, del rigore, della verifica formale e della disponibilità dei dati e dei processi alla comunità scientifica. Richiede quindi un lavoro di stress degli statuti disciplinari, piegando i saperi, anche quelli creativi, ad una spiegazione che possa essere discussa e validata intersoggettivamente sulla base di parametri logico formali. Cosa che è certamente possibile ma, crediamo, non in senso universale e non in chiave di risposta in termini di certificazione di qualità, la quale a nostro avviso resta sempre qualcosa che ha a che fare con il Talento individuale tipico di chi opera in una pratica artistica come l’architettura o le arti “sorelle”, e con lo Stato di Grazia che rende possibile a pochi ciò che è impossibile per molti.

La produzione di 4A sarà organizzata per filoni di ricerca autonomi e incrociati allo stesso tempo.

Da una parte, e in adesione a quanto ormai consolidato nelle attività editoriali delle riviste scientifiche e di classe A, proponendo un dibattito che è derivante principalmente dal coinvolgimento di attori esterni alla redazione mediante Calls for paper, certificato dal procedimento di double blind peer review. Accanto a questo lavoro prodotto in esterno, si affianca anche un’attività di ricerca affidata invece alla redazione, che opera su temi definibili come Crossroads, cioè incroci disciplinari. Questa area della ricerca, composta da Calls e Crossroads, sarà chiamata “Good ideas”. Ma mentre le Calls avranno il compito di sviluppare ragionamenti a circuito chiuso, cioè con un carattere monografico e secondo una tempistica di due numeri all’anno, Crossroads invece, si muoverà secondo il principio della ricerca continua, senza soluzione di continuità temporale. Svilupperà ricerche incrociate caratterizzate da tempi interni e indipendenti dalle scadenze editoriali. Si pubblica quando si conclude un percorso oppure quando si esaurisce un tema.

Dall’altra, recuperando ciò che le altre riviste scientifiche hanno da tempo messo da parte e proponendo un’offerta progettuale di livello internazionale, dedicata al mantenimento del progetto eseguito come principale ambito di verifica dello stato attuale dell’architettura, ma anche delle espressioni considerate più significative nel quadro dell’esperienza costruita. «L’architettura sono le architetture» dicevano i maestri che, oltre ad essere docenti universitari riconosciuti e seguiti da un largo seguito di “fedeli”, erano anche detentori di una consolidata esperienza professionale e agivano sullo scacchiere internazionale partecipando a importanti concorsi e commesse pubbliche o private di alto profilo, nonché nel dibattito sociale, culturale e politico. Chiameremo quest’area a contenuto progettuale Good practice.


Progetto. Quale Futuro?

Da troppo tempo il progetto è uscito dal registro dei Saperi. Questo certamente e soprattutto in chiave nazionale, dove la battaglia per la sopravvivenza è diventata tema quotidiano. È un enigma dalla difficile e complessa soluzione, se non si vuole entrare in una dimensione dietrologica, che pure potrebbe essere legittima. L’inizio di questo processo non è di oggi. Da una decina d’anni, anche in ragione dell’istituzione dei procedimenti di abilitazione scientifica nazionale per l’accesso all’insegnamento di prima e seconda fascia, gli architetti hanno smesso di progettare dedicandosi principalmente alla scrittura. L’esigenza di produrre questi testi definiti scientifici li ha resi più vicini a letterati che si esprimono secondo dettami di una burocrazia metodologica, linguistica e digitale, che non a persone di mestiere abili nelle loro arti che sono in parte umanistiche e in parte tecniche. Senza considerare la risorsa – inevitabilmente scarsa –  delle ragioni e delle idee da mettere su carta che impone una continua rielaborazione degli stessi concetti espressi in modo diverso ma sostanzialmente omologo. Si cambia l’ordine degli addendi ma la somma resta la stessa. Una metodologia pseudo-scientista che non genera qualità ma piuttosto ridondanza quantitativa senza alcun reale fattore di impatto nella società e nel fare scuola. Queste regole non costituiscano necessariamente una certificazione di qualità, anche perché nel caso dell’area della teoria, della storia e, soprattutto, della progettazione, l’assenza dei progetti e delle architetture costruite dalla produzione considerata scientifica, non permette una reale restituzione dei profili curriculari che possa essere considerata a tutto tondo. Un architetto, infatti, che agisce nel gioco linguistico dell’architettura scientifica, si misura su tre ambiti: ricerca, didattica e progetti (costruiti e non). Se manca il progetto, il profilo sarà inevitabilmente quello di un bravo e colto critico o storico dell’architettura e non di un architetto nel senso che questa parola ha avuto dai tempi di Amenhotep fino allo scorcio del XX secolo.

La crisi di legittimazione del progetto, tuttavia, se da una parte sembra eterocomandata, dall’altra si porta dietro una perdita di consensi certamente dovuta agli insuccessi disciplinari difronte ai temi della contemporaneità, dell’ambiente, della sostenibilità intelligente e dell’innovazione, seppur per sua natura l’architettura è cosa di per sé antica. La persistenza nella scuola di temi desueti come il social housing oppure come l’ipertrofia della scala di progetto, sempre più vicina all’1:1000 che all’1:10; la mancanza di conoscenza storica e l’assenza della competenza nel disegno tradizionale come base per un uso consapevole delle macchine, ha reso la preparazione degli studenti impermeabile alla sensibilità per le cose del presente originate dal passato. Tutta la questione del patrimonio, dalle antichità alla proto-modernità appare come un mondo sconosciuto, dove il progetto appare come qualcosa di estraneo, di eccessivo, di fuori luogo, per quanto esempi di buoni lavori, e in alcuni casi di capolavori nella tradizione dell’architettura europea ce ne sono anche stati. Oggi tengono banco la zero-carbon architecture e un’idea di sostenibilità che lavora soprattutto con il nuovo. Tutto certamente plausibile e di grande interesse, ma un serio lavoro di progetto innovativo nel recupero del patrimonio ha ancora da venire. Del resto, il tema è complesso e la fragilità del patrimonio richiede spesso soluzioni consolidate piuttosto che strade sperimentali. Parliamo naturalmente del patrimonio recuperabile, cioè quello capace di sostenersi in autonomia nonostante le sollecitazioni del cantiere. Con il patrimonio archeologico la cosa richiede protocolli molto più articolati e innovativi dove spesso la sfida per la modernizzazione della città globalizzata confligge con tutto quel mondo sepolto che non vede la luce da secoli.

Parlo, per esempio, dell’esperienza della metropolitana archeologica, la Linea C di Roma, nel suo tracciato al di sotto dell’Area Archeologica Centrale. Un’esperienza di grande interesse che ha richiesto un ingente movimento di risorse e allo stesso tempo un’occasione di ricerca che è assolutamente eccezionale, per la qualità dei ritrovamenti e per la riscrittura di alcune pagine dell’archeologia contemporanea. I ritrovamenti – nello scavo del Pozzo Celimontano a più di venti metri di profondità – di strati archeologici di epoca tardo imperiale ci parlano di una Roma totalmente sconosciuta. Così come finalmente è stata svelata la storia del taglio della Velia da parte di Nerone e non di Mussolini, come chi scrive ha da tempo argomentato. A fronte di questi successi, non si può tuttavia tacere su altri casi in cui il Ministero farebbe bene ad interessarsi. Ne cito solo tre, ma che mi sembrano indicativi dello strano rapporto che esiste tra uffici centrali e uffici periferici nella gestione delle pratiche di competenza ministeriale. Il primo caso riguarda lo smontaggio e la rimozione di parti importanti dell’allestimento della Galleria Nazionale di Parma di Guido Canali, un capolavoro della scuola italiana di museografia. Il secondo caso riguarda lo smontaggio delle opere vincolate nel cuore archeologico di Roma: le sistemazioni di Antonio Munoz per l’area sacra di Largo Argentina, primo esempio di allestimento museografico stratificato, per il Viridarium del Tempio di Venere e Roma, impunemente demolito dietro i ponteggi dei lavori del Giubileo, e per l’Antiquarium di Cecilia Metella. Il terzo riguarda, sempre a Roma, il taglio della Via Alessandrina, urbanisticamente errato ed inutile, e scientificamente privo di consistenza. Cominciamo a denunciarlo in questa sede, poi vedremo che cosa fare in futuro. Sull’allestimento di Canali e su Largo Argentina si può ancora ragionare sul ripristino. Sulla Via Appia e sul Tempio di venere e Roma, dobbiamo invece darci pace.

Nel rapporto tra architettura come pseudo scienza e la creatività come accezione comportamentale a carattere individuale, un ultimo passaggio va dedicato alla questione etica. Esiste una forma etica? Oppure la forma è solo estetica e la dimensione etica risiede solo nelle intenzioni. Forse è possibile spiegare l’etica della forma come rappresentazione di una intenzione, ma non sempre esiste un accordo sul suo valore universale. Pertanto, la forma etica vive solo in una dimensione narrativo-contestuale che ogni volta deve trovare le sue condizioni di legittimazione. Questo è importante per dire che quando si tratta di architettura, ancorché solo parlata, esiste tutta una serie di responsabilità in capo all’io narrante, che non possono passare in secondo piano. «Ciò che si fa in vita riecheggia nell’eternità», si perorava in un celebre film di inizio millennio, compresi gli errori. Nulla di più vero, soprattutto quando si passa dall’architettura parlata a quella costruita, cioè dall’idea alla “verità”. Gli architetti devono pensare prima di fare e ricordarsi sempre che esiste un patrimonio che richiede etica e responsabilità.

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